La morte, ironia della sorte, è l’unica certezza che la vita ci da. Nasciamo, e dal primo respiro sappiamo che prima o poi, ce ne sarà rigorosamente e inevitabilmente un ultimo. Nel mezzo, gli altri respiri, dipendono in gran parte da noi, dal nostro desiderio di non sprecarne nemmeno uno.
Gli altri respiri, quelli fra il primo e l’ultimo dipendono spesso dal nostro poter e voler essere, dalle nostre scelte, dalla nostra razionalità, dalla nostra impulsività, dal nostro coraggio e dalle nostre paure.
E così, davanti ad una pandemia le reazioni sono le più disparate, tutte oggettivamente comprensibili, tutte umanamente legittime, tutte soggettivamente criticabili.
Non sono un medico, ancor meno un virologo e non ho intenzione di laurearmi alla sempre più frequentata università di google.
Sono un uomo che ama lo sport, lo racconta e lo vive, in prima fila, da oltre venticinque anni.
Sono un uomo che reputa lo sport un insostituibile strumento di crescita fisica, umana e sociale; un mezzo superlativo per tramandare valori quali lealtà e rispetto delle regole, di se stessi e degli altri; una scuola di vita in cui si insegna quanto sia importante applicarsi con dedizione, costanza e tenacia.
Lo sport è al tempo stesso razionalità e impulsività, coraggio e paura, realtà e sogno, talvolta delusione, comunque batticuore, in una parola “vita”.
In questi anni a bordo campo, nelle obsolete palestre di periferia come nei più moderni palazzetti internazionali, ho avuto l’onore di comprendere che lo sport è sempre e comunque, fino alla fine, “speranza”.
La “speranza” ci da la forza di lottare, talvolta anche irrazionalmente, contro il più ostico degli avversari; la “speranza” ci da la forza non solo per accettare la sfida, ma spesso anche per vincerla. Nello sport come nella vita.
E senza speranza, vorrei non lo dimenticassimo, possiamo respirare ma non saremo vivi.
Non fermate lo sport. Non fermate la speranza.
Con il cuore, sempre.
Foto Giulio Gualtieri.