Gentilissima Martina Scavelli,
chi le scrive è un uomo di 44 anni che ha cominciato ad essere considerato robusto quando ne aveva 3.
Robusto per scelta, seppur potrebbe sembrare scellerata, e non per disfunzioni come talvolta capita ad alcuni soggetti. In estrema sintesi: mi piace mangiare.
Non mi vanto di essere grasso o come dicono i dietologi, che puntualmente entrano nella mia vita, “grande obeso” e nemmeno me ne vergogno.
Sono perfettamente consapevole dei rischi che l’essere robusti e sovrappeso può comportare alla mia salute e, con la stessa lucidità oggettiva, conscio delle limitazioni che, una forma non eccellente, mi impone nella quotidianità.
A chi negli anni mi ha fatto notare con disprezzo di essere grasso ho sempre risposto, con ironia: “ un grasso può diventare magro e viceversa, ma uno stupido resta uguale a se stesso, sempre!”
Fatte queste premesse, giusto per non sembrare il classico “grassista” (sa in questo periodo, dopo razzista e sessista il rischio c’è…) mi ha stupito molto il suo post denuncia in cui ha raccontato, in estrema sintesi, che la FIPAV, la Federazione della Pallavolo, le impedisce di arbitrare perché grassa, dando adito a polemiche basate sulla discriminazione.
Sa qual è la cosa che più mi stupisce? Mi stupisce che chi ha scelto, come lei, di essere arbitro non conosca le regole o peggio alimenti lo scandalo quando vengono rispettate. E mi stupisce altresì che una persona di sport, seppur vissuto stando seduti su un seggiolone, non comprenda l’importanze di trasmettere un messaggio coerente sul legame fra forma fisica, sport e salute.
Per i non addetti la normativa Fipav, che oggi le impedisce di praticare l’attività, esiste per gli arbitri di serie A da oltre dieci anni ed è stata estesa alla serie in cui lei ha arbitrato fin qui (serie B, ndr), se non erro, dal 2017.
Quindi… le fa onore il fatto di piacersi comunque e di non voler badare ai canoni della “magrezza” imposti talvolta dalla società ma, mi creda, il suo sfogo social pare più una cavalcata dell’onda “discriminazioni” che non un voler affrontare, in modo serio, quello che per molti rappresenta un problema, prima di salute che sociale.